L’ impossibile coraggio della sconfitta
Perché è così difficile vendere in perdita.
L’ amministratore delegato di una compagnia aerea ha investito dieci milioni di euro in un progetto di ricerca per costruire un velivolo che non possa essere avvistato dai radar convenzionali. Il progetto è completato al 90% quando si diffonde la notizia che un’ altra compagnia ha già messo sul mercato un aereo uguale, ma più veloce ed economico. Domanda: trovandoti nei panni dell’ amministratore della prima compagnia aerea, investiresti il restante 10% per finire il progetto? Se sei come la maggior parte delle persone (e come l’ 85% dei soggetti cui gli psicologici cognitivi americani Hal Arkes e Catherine Blumer sottoposero questo test nel 1985) risponderai in modo affermativo. Fatto trenta, facciamo trentuno ( e continuiamo a farci del male). Attenzione però: perché quando si ripropone lo stesso scenario azzerando i costi sommersi, chiedendo cioè chi sarebbe disposto a spendere un milione di euro per progettare un prodotto nettamente inferiore a uno rivale, la percentuale di coloro che investirebbe i propri soldi cala al 17%. Costoro determinano, in maniera corretta, la propria strategia esclusivamente in base ai costi e ai benefici futuri. Ma allora perché nel primo caso scatta la trappola dei costi sommersi? Probabilmente, suggeriscono i due ricercatori, per un’ indebita generalizzazione della regola di comportamento per cui «non si deve sprecare»: generalizzazione da cui l’ evidenza sperimentale mostra che sarebbero curiosamente immuni bambini e animali. Fra gli investitori c’ è una ben documentata e marcata tendenza a onorare i «costi affondati». Ma capita a tutti di finire in trappola. Il pensare «ho investito troppo in termini di tempo, impegno, energie, soldi, sentimenti per mollare ora», può facilmente degenerare in una spirale rovinosa. Tanto da condurci a pagare un euro fino a oltre tre volte il suo valore! Il meccanismo l’ ha illustrato Martin Shubik, matematico ed economista di Yale, attraverso un gioco divenuto famoso. Un gioco «estremamente semplice, molto divertente, di quelli che si possono proporre durante una festa, a un pubblico numeroso, quando il livello alcolico è già alto, la propensione a calcolare è minore». E’ un’ asta: in vendita una moneta da un euro. C’ è un banditore e ci sono gli offerenti. Vince l’ euro in palio chi fa l’ offerta più alta. La base d’ asta è un centesimo. L’ unica eccezione – peraltro cruciale – rispetto a un’ asta normale è che il secondo miglior offerente deve pagare al banditore la somma che ha offerto, in cambio della quale, essendo arrivato secondo, non otterrà nulla. In un’ escalation di imbarazzo, stress e coinvolgimento, giochi di questo tipo finiscono frequentemente con qualcuno che «vince» l’ asta portandosi a casa un euro per 3 euro e 40 centesimi. E qualcun altro, il secondo, che paga poco di meno al banditore. Possiamo dubitare che ci siano in giro così tanti fessi. Ma basta ragionare passo a passo per sentire la forza del meccanismo che ci incatena a un investimento passato: anche solo di pochi centesimi. Supponiamo che qualcuno abbia offerto 10 centesimi per l’ euro in palio. Non sarà difficile trovare qualcun altro disposto a offrirne 11. Ma allora, a quello che aveva offerto 10 converrà andare avanti e avere l’ euro per 12 centesimi, dal momento che in quanto secondo si troverebbe nella posizione di dover pagare 10 centesimi senza vincere nulla. Ovviamente lo stesso ragionamento, dopo che la posta è stata alzata a 12, lo farà anche l’ altro giocatore, quello che aveva offerto 11; ora è lui a essere secondo. E così via, rilancio dopo rilancio. Arriviamo alla prima soglia critica, quella dei 50 centesimi. Il rilancio è a 51, il che significa che l’ autentico vincitore sarà il banditore, dal momento che riceverà sia la prima che la seconda puntata per un totale di un euro e un centesimo. Superata quella soglia, l’ altro momento critico sarà a 1 euro. Sino a 99 centesimi, ci sarà sempre un guadagno, sia pure minimo, almeno per l’ offerente. Arrivati a un euro, chi lo offre va in pareggio: paga un euro per un euro. Ma il secondo perderebbe 99 centesimi, e per la stessa logica che ha generato la spirale di offerte fin dall’ inizio, egli riterrà preferibile perdere un centesimo offrendo un euro e un centesimo che perderne 99: non sarò mica io l’ idiota! L’ avversario fa lo stesso ragionamento, ed ecco che facilmente in brevissimo tempo ci si ritroverà di fronte a offerte che si inseguono al rialzo fino a 3, 4, 5 euro per una moneta da 1. Se all’ inizio si è motivati dal fatto di poterci guadagnare, la spirale del gioco è alimentata da fattori irrazionali e da forte emotività: salvare la faccia, minimizzare le perdite, paura di rovinarsi, punire l’ avversario per averci trascinato fino a quel punto, eccetera. Tutti elementi che ci terranno zavorrati al peso della decisione già presa e che non ci consentiranno di determinare liberamente le scelte attuali. Due sono gli antidoti per evitare simili situazioni di escalation. Il primo, banale, è di riconoscere in anticipo la trappola e stare fuori dal gioco. Se però ci si finisce dentro, l’ unica scappatoia altrettanto banale ma, come abbiamo visto, difficile da attuare: uscirne il prima possibile. Accettando che il passato è passato e rassegnandosi a incassare la perdita. Si subirà una sconfitta, ma si eviterà un danno sensibilmente maggiore.